martedì 24 settembre 2013

La manovra della manovra

L’apoteosi per le elezioni tedesche ha trovato il suo apogeo sui media italiani, relegando alle pagine secondarie le avvilenti vicende politiche nostrane. Il tutto manifesta, se mai avessimo avuto bisogno di conferma, quanto “germanocentrica” sia l’Europa e quanto noi italiani si voglia continuare a manifestare la nostra sottomissione nei confronti del paese egemone.

Mentre nel nostro cortile, piccolo piccolo, si continua a cercare qualche miliardo ad appannaggio di promesse elettorali fatte da chi non ha vinto (complice l’incapacità di governare di chi ha vinto), appare sempre più chiaro all’orizzonte il destino dell’Italia, abbracciata mortalmente da Europa+euro che stanno rapidamente scavando la fossa a 60 anni di talenti, imprese, istruzione, ricerca, stato sociale. 

Arriverà presto la necessità di dover far fronte a un rapporto deficit/PIL che (mi scusino i lettori, sicuramente informati) è sempre più sbilanciato verso il deficit, dopo che il PIL resta in caduta, con conseguente manovra correttiva della manovra correttiva della manovra correttiva.
Lo smarrimento è forte, l’IMU tolto senza copertura, un aumento dell’IVA che, oltre a deprimere ancora di più la domanda interna, non aiuta il gettito (statisticamente diminuito in concomitanza con gli ultimi due aumenti) e favorisce ancora di più l’evasione fiscale.

Possiamo discutere di tutto, del debito pubblico, della burocrazia, della casta, delle riforme strutturali, ma se la classe politica non prende seriamente in considerazione il fatto che questo paese sta per finire con le gambe all’aria, allora aspettiamoci il peggio, la Grecia (con tutte le differenze del caso) insegna. 

Infine un pensiero per Telecom, acquistata proprio oggi dalla spagnola Telefonica. Non si tratta solamente di un’altra azienda italiana che passa in mano straniera, siamo di fronte allo sconfortante ripiegare della bandiera Italia, una realtà delle telecomunicazioni per decenni al vertice dal punto di vista della struttura e dell’innovazione. Ce ne pentiremo amaramente quando l’euro verrà meno.

martedì 23 luglio 2013

Il filo rosso che unisce Detroit con Atene

Il default dichiarato dalla città di Detroit (18 miliardi di dollari) è l’ennesima figurazione dei danni provocati dalla finanza “deregolamentata” (correa la politica), la stessa che ha causato il crack 2007-2008 e che ha contribuito a smascherare la vera natura dell’euro e di questa Europa, mettendo in ginocchio l’economia europea.

La libertà di circolazione dei capitali, sotto forma di prestiti indiscriminati, ha spinto i paesi (o le città, come nel caso di Detroit) e i loro governanti a prostrarsi di fronte agli afflussi di denaro prima e merci poi, salvo poi dover rendere conto quando la situazione è diventata insostenibile.

Non si tratta di etica, i mercati operano anche in base ai vincoli imposti o, per contro, alle libertà di cui usufruiscono; il capitalismo si fonda sul debito, questo è universalmente accettato, ma quando diventa danno perché in se nutre il secondo fine (che può essere il mero profitto come il controllo di altri paesi) ecco che rivela il suo pericolo ed ecco che le istituzioni dovrebbero (devono) intervenire.

Non è accettabile che uno stato come la Grecia sia relegato a paese di terza fascia perché gli viene sollecitato di onorare un debito sconsiderato (colpa del debitore) offerto da un paese approfittatore (colpa del creditore).
I parametri dell’Unione Europea sono ormai insostenibili per la maggior parte dei paesi che hanno adottato la moneta unica, il rapporto deficit/PIL è in costante aumento perché l’economia non riparte e si soffocano investimenti e futuro nel nome di un meccanismo che ormai ha mostrato il suo lato oscuro e porterà solo a un ulteriore ampliamento dei danni; il primo passo da fare, per l’Italia e gli altri paesi periferici alla Germania, è quello di ridiscutere i trattati, rivedere le proprie posizioni, riavvicinarsi alla possibilità di riacquistare quella sovranità che è stata svenduta a poco prezzo, per qualche spicciolo di euro.

Il futuro dell’Europa e della sua stabilità sociale dipenderà solo ed esclusivamente dalla capacità che avranno i partiti di maggioranza nei vari stati di riportare il proprio paese al centro del dibattito, riportare l’Europa a una dimensione di collaborazione internazionale e scambio commerciale ma che rispetta l’identità e le Costituzioni dei suoi membri, e non le fa a pezzi ponendosi come faro guida ed entità sovranazionale per inseguire il sogno di profitto tedesco.

giovedì 18 luglio 2013

Introduzione di "L'euriasmo ci condannerà"

Pubblico l'introduzione ad un breve ebook in fase di ultimazione che dopo l'estate renderò disponibile sul mio blog e su Democrazia e Sovranità.

"Capire la natura di questa crisi economica, deflagrata nel 2007 ma covata da un decennio e tuttora presente, è di fondamentale importanza per interpretare correttamente le informazioni che ogni giorni ci pervengono, seppur con reticenza, dai mezzi di comunicazione. Capire la vera natura della moneta unica, l’euro, che tanti benefici doveva portare e che si è dimostrata, come ampiamente previsto, uno strumento di vantaggio dei forti (come la Germania) verso i deboli (Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda, Slovenia, Cipro) o verso i concorrenti temibili (Italia soprattutto ma anche Francia).

Dobbiamo soffermarci subito sul concetto politico dell’euro perché è questa la sua vera natura; la necessità di accrescere la propria economia, consumata da un decennio di spesa pubblica, ha portato la politica tedesca a essere detentrice del destino dell’Europa, aggregando nazioni diverse per economia, cultura, politiche sociali, contributive e delle pensioni, oltre che educative sotto la bandiera del “più Europa”, slogan molto in voga ancora oggi; il bisogno di paesi che si sentono “inferiori” di poter partecipare al gioco ha contribuito a spingere economie deboli ad agganciarsi ad una moneta troppo forte che se in una prima fase ha contribuito ad espandere (ma principalmente dal lato del debito privato, come vedremo) nella seconda parte ha portato, come nei più classici casi da ciclo di Frenkel, ad un collasso dell’economia del paese sotto il peso della sussistenza e strozzate dal meccanismo del finanziamento sui mercati, attraverso l’emissione di titoli di Stato, che ha comportato un aumento dei tassi d’interesse che in regime di cambio fisso non possono essere sostenuti quando l’economia si aggrava in seguito ad uno shock (la bolla finanziaria americana e il fallimento della più grande banca d’investimento, la Lehmann).

Il desiderio di non essere inferiori ma anzi protagonisti, intravedere il prestigio politico personale a scapito di una seria valutazione economica dei vantaggi o degli svantaggi (peraltro ben chiari fin da subito), la garanzia di benessere e prosperità: tutto questo ha contribuito ad accrescere la necessità dei principali partner europei della Germania di seguirla nel tunnel della moneta unica, commettendo una serie di errori che in questo momento, a fronte di una sicura frammentazione del progetto, potrebbero costare caro in termini elettorali (e lo scrivo ben conscio della capacità “doppiogiochista” dei nostri leader e la memoria sempre eccessivamente corta dell’elettore nostrano): in primo luogo il progetto non è stato spiegato ai cittadini in maniera equilibrata, non si sono evidenziati i problemi che si sarebbero venuti a creare di fronte a un’eventuale (e quanto mai concepibile) crisi economico-finanziaria, si sono voluti enfatizzare solo gli aspetti propagandistici del progetto euro tralasciando quelli concreti, e i perché di certe scelte/imposizioni (il cambio lira/euro, ad esempio, continua a essere tema di discussione, la maggior parte delle volte senza aver chiara la questione); in secondo luogo i trattati sono stati accettati senza batter ciglio, accogliendo le strane imposizioni dell’Europa (cioè della Germania) che tutt’ora si configurano come autentiche “spade di Damocle” sulla testa nostra e sul nostro futuro; non conoscendone appieno il contenuto non deve sorprendere sentir frotte di politici (principalmente di estrazione progressista) riferire che dall’euro non si può uscire, quindi irreversibile, ignorando volontariamente (auspichiamo) sia alcuni passaggi del trattato di Lisbona (complemento a quello di Maastricht) sia dei trattati internazionali di Vienna.

E’ ovvio, in un paese che ha dimostrato di avere una classe politica inefficiente e menzognera, che il percorso intrapreso per aderire a quest’unione monetaria per loro non si può troncare, perché smisuratamente si sono esposti e troppo si sono lasciati prendere a schiaffi sui palcoscenici internazionali, rappresentando un paese che non merita di essere trattato con scherno, che non ha mai avuto dei figuranti credibili e soprattutto autoritari (e non autorevoli, come l’ex Presidente Monti).

Ma l’euro non è solo strumento tedesco, esso rappresenta un’incredibile opportunità di guadagno per le grandi aziende che possono giocare al ribasso sui salari, avvallando questa manovra con la scusa della scarsa produttività, oppure per proteggere le banche da azzardi finanziari, riversando poi le perdite sui propri correntisti come nel caso del crack di Cipro."

Andrea Visconti

giovedì 11 luglio 2013

Italia stremata ed Europa in fiamme

Negli ultimi giorni si sono acuiti i segnali di un inequivocabile peggioramento economico e politico nella zona euro. I paesi maggiormente esposti al rischio speculazione hanno visto aggravare la propria posizione sia per l’incessante avanzata della crisi sia per una manifesta incapacità politica, condita da scandali e defezioni.

Le notizie che arrivano dall’Europa meridionale, come avevamo anticipato, ci raccontano l’assoluta instabilità dei governi, per scandali in procinto di esplodere (Spagna) o per esecutivi sull’orlo di una crisi di nervi (Portogallo e Grecia). La situazione è molto difficile in particolar modo nel paese ellenico, già formalmente fallito da tempo, che a fronte della richiesta di aiuti aggiuntivi si è vista sbattersi in faccia un elenco di ulteriori tagli e manovre atte a soddisfare i pruriti dell’austerità della Troika; stessa sorte per il Portogallo, con il tasso di interesse sui titoli di Stato cresciuto fino all’8%, e un governo che cerca disperatamente di trovare la forza per resistere, schiacciato da quella parte politica che, forse, si sta rendendo conto della macelleria che si è fatta negli ultimi anni.

L’Italia è stata retrocessa, come outlook, a BBB, ad un passo dalla spazzatura. Le ingerenze dei giorni scorsi in merito ai provvedimenti che il governo dovrebbe prendere hanno inevitabilmente pesato su questa decisione, visibilmente sospetta nel tempismo con cui è arrivata; il vincolo esterno, ancora una volta, domina un paese che avrebbe urgenza di ben altro (ad esempio una moneta “tagliata” sulla propria economia e una classe politica almeno dignitosa).

In Francia la situazione precipita speditamente, il Fronte Nazionale aumenta la sua popolarità e i potenziali elettori, la recessione che ha colpito il paese transalpino sta mettendo in serio pericolo la stabilità dell’euro e ne vedremo le conseguenze nei prossimi mesi. Il Presidente Hollande si trova con le spalle al muro, stretto tra la necessità di salvare l’apparenza nel finto asse franco-tedesco e la necessità di attendere l’esito delle elezioni in Germania di fine settembre per capire chi sarà l’interlocutore con cui trattare il futuro.

La necessità di una nuova manovra correttiva, per l’Italia, è uno spettro che giorno dopo giorno di materializza. La tenuta del debole governo è aggrappata a un filo sottile che potrebbe a breve spezzarsi se la condanna di Silvio Berlusconi divenisse definitiva. A quel punto il caos regnerebbe sovrano, ma la cosa potrebbe anche non essere negativa per noi, sotto molteplici aspetti. La situazione politica è fortemente orientata dalle decisioni del Presidente della Repubblica che a sua volta manifesta segni di affaticamento, forse si è reso conto di aver costruito un mostro a due teste che, sebbene abbiano comprovato di coesistere benissimo (e non da oggi), si è dimostrato ancora una volta incapace di affrontare i problemi reali e di discutere del vero e grande ostacolo alla ripresa, ovvero l’euro e i trattati europei che ci stanno distruggendo.

Le prospettive di crescita (0,5% nel 2014) sono talmente bizzarre e fraudolente che ormai nessuno ci crede più, tanto meno gli investitori che infatti monitorano costantemente l’evoluzione della crisi per approfittarne nel momento in cui la realtà (ovvero il precipitare del rapporto deficit/PIL) verrà a chiedere il conto.

La realtà è che con tale classe politica spaventa perfino l’eurexit. Non si tratta semplicemente di abbandonare una moneta per introdurne un’altra, si tratta di determinare una serie di accorgimenti per far si che il panico non furoreggi, che la società risenta il meno possibile dello shock, che l’inevitabile periodo transitivo che si porterà dietro la svalutazione della nuova moneta possa essere ammortizzato attraverso provvedimenti economici che ne favoriscano l’assunzione dei benefici e ne controllino gli effetti negativi.

Tutto questo a chi lo affidereste? Io un nome non sono in grado di farlo.

lunedì 8 luglio 2013

L'euro-imbroglio e la necessità di riavere i propri diritti

Il fallimento dell'euro è ormai cosa assodata.
Da qualsiasi parte si osservi non si può fare a meno di constarne il declino, inesorabilmente accentuato dallo shock finanziario che ne ha smascherati i lati oscuri. L'ingresso in quest’unione doveva portare stabilità, concorrenza e permettere allo Stato di approfittarne in termini di riduzione dal lato della spesa per interessi e di un'unione a livello di ordinamento (economica, bancaria, sociale) che sono i capisaldi affinché un'unica moneta possa esistere e prosperare.

Bene, tutto questo non c'è stato e mai ci sarà.

Il cosiddetto "dividendo dell'euro" non solo non è stato raccolto ma si è rivelato ben altra cosa, portando sul lastrico le economie che non potevano sopravvivere a un cambio rigido, che mal si sposava con le diverse realtà economiche dei singoli Stati. Il dramma che stiamo vivendo assomiglia a un’enorme suggestione, un regno delle promesse non mantenibili, un grosso limbo dove si arranca per cercare una soluzione che non esiste.
Se si analizza la condizione di alcuni paesi, quelli maggiormente colpiti dalla recessione, che appartengono alla fascia mediterranea dell'Europa ci si accorge di come la favola del centro che corteggia la periferia sia una tragica storia d'amore che uccide le economie deboli a scapito di quelle egemoni. Il meccanismo che si cela dietro all'euro è politico prima di tutto, e per questo motivo si rivela nocivo per i popoli ma molto redditizio per il potere e le lobby ad esso connesse; il tentativo di ricostruire economicamente il paese che più aveva pagato in termini politici (la Germania dopo l'annessione della parte orientale) ha finito per disintegrare il tessuto economico (e a brevissimo anche quello sociale) di coloro che si sono tuffati in questa avventura dagli esiti scontati con tanto entusiasmo, sia per convenienza che per prestigio.

Ma sarebbe riduttivo addossare tutte le colpe ai governi tedeschi perché questa è una crisi che nasce da lontano, dalla fine degli anni 70, quando le classi dirigenti hanno iniziato a farsi ammaliare dal potere e dal denaro generato dalla finanza, spingendo le economie mondiali verso un tragitto di deregolamentazione dei mercati e la libera circolazione dei capitali. Queste politiche hanno portato nel giro di pochi anni alla creazione di quel sistema che oggi dobbiamo continuare a finanziare e del quale pagheremo per chissà quanto tempo le conseguenze.
La classe dirigente italiana, poi, non si è mai sottratta all'influenza esterna, storicamente documentata da una serie impressionante di scelte che ci hanno resi schiavi di qualcuno, incessantemente.
La separazione (divorzio) fra la Banca d'Italia e il Ministero del Tesoro ne è un esempio classico. La decisione di svincolare il finanziamento delle attività dello Stato si è rivelata il punto più alto di una scellerata inclinazione a considerare i mercati più importanti dei propri cittadini, facendo lievitare il debito pubblico dal lato della spesa per interessi; i grafici lo dimostrano, l'esplosione del nostro debito pubblico è avvenuta in concomitanza con questa decisione tanto cara all'allora Governatore di Bankitalia Carlo Azelio Ciampi, uno dei "padri nobili" dell'euro, con buona pace dei socialisti e dello Stato sprecone e improduttivo.

Non ci si può più nascondere dietro alla necessità di riforme strutturali, che nessuno nega siano necessarie, ma non possono essere soggette a vincoli esterni, non devono essere imposte da organizzazioni europee o internazionali che agiscono in base a logiche puramente legate agli interessi di pochi a scapito di molti. Il Fondo Monetario Internazionale, che da poco ha ammesso l'inefficacia e gli errori commessi nella "cura" alla Grecia, vorrebbe entrare nel merito dei provvedimenti del nostro Governo, imporre la politica economica e sociale, dettare l'agenda ai nostri amministratori, come se già da soli non fossero capaci di macroscopici errori.

L'ostinazione nel considerare necessario questo vincolo sta portando l'Italia verso la fine di un baratro dove ad aspettarla c'è un altro baratro, ancora più profondo.

Riacquistare la sovranità monetaria e decisionale è fondamentale non solo per noi ma anche per gli altri paesi ridotti in stracci dal desiderio egemone tedesco e dall’assurda convinzione di poter trarre una qualche forma di profitto da questa Europa.

L'euro ha fallito sotto tutti gli aspetti, ha condotto i paesi deboli a indebitare i propri popoli per poi indebitarsi lui stesso, in una spirale recessiva senza precedenti; il meccanismo di aiuti della BCE (OMT) non è mai entrato in funzione perché i vincoli che impone sono insostenibili, economie debilitate e sull'orlo del collasso non possono permettersi le direttive europee salvo poi pagarle a caro prezzo.

La politica è l'arte del possibile, il punto di non ritorno si avrà nel momento in cui i governanti si renderanno conto che consumare la menzogna sarà più pericoloso che ammettere la sconfitta.
La condizione di un paese importante come la Francia è critica, e peggiora di mese in mese; la speranza che il forte nazionalismo transalpino possa salvare l'Europa è concreta, ma se non saranno loro a far collassare il diabolico meccanismo sarà un altro paese, uno dei tanti che procede spediti verso il loro crollo.

venerdì 5 luglio 2013

I pregi di una corretta disinformazione

La politica italiana e i media procedono il loro cammino tenendosi per mano, nel tentativo di continuare l’oscuramento della verità sull’euro e sull’evidente situazione nel nostro paese e in quelli che come noi patiscono, principalmente a causa di una moneta troppo forte rispetto alle reali necessità economiche.

Lo schieramento che ogni giorno osserviamo (in TV) e leggiamo (sui quotidiani) risponde alle direttive di quello che viene finemente definito PUDE (Partito Unico Dell’Euro), acronimo coniato dal Prof. Alberto Bagnai che rappresenta benissimo la determinazione di coprire le magagne della moneta unica, oggi con il debito pubblico, domani con la Casta e dopodomani con il “più Europa”.

Nessuno si salva da questa nenia pro-euro, nemmeno il MS5 nel quale qualcuno aveva riposto speranze, non tanto nelle azioni quanto nel dibattito; invece nelle ultime settimane ci siamo dovuti affidare ad alcune dichiarazioni di Silvio Berlusconi, prontamente smentite da lui stesso come nella migliore tradizione (sondaggistica, si intende). Il Partito Democratico vede la sua rappresentanza più alta nel Presidente del Consiglio Enrico Letta, il quale non fa passar giorno senza qualche dichiarazione entusiastica che mal si sposa con la realtà di un paese in ginocchio.
Naturalmente molte sono le cause che hanno portato al PUDE, il difendere una colossale menzogna sull’euro, l’incapacità (atavica) di far valere i diritti dell’Italia, l’opportunità elettorale, la distanza delle istituzioni dal paese reale e molto altro.

Chi segue il dibattito (più che mai acceso) sul Web 2.0 si rende ben presto conto della situazione, capisce a quale gioco le super-potenze dell’euro (Germania) stanno giocando per tenerci inchiodati in questo miserabile limbo per poterne approfittare, s’interroga e fa domande, si confronta e si mobilita. Ma al di fuori di questo c’è davvero poco o nulla.
Voci e professionalità autorevoli, come il citato Bagnai ma anche Borghi o Rinaldi, vengono relegati in spazi conditi da folte rappresentanze del PUDE e cercano di non sovraesporsi (per scelta o per imposizione), alla ricerca di uno spazio serio dove dibattere di un tema cruciale come quello della sovranità monetaria.

Il dovere di chi partecipa alla discussione sui social network è quello di informare più persone possibili, di divulgare ove possibile la vera verità anche al di fuori della rete.

Poi, naturalmente, chi vorrà sapere saprà ma almeno potremo dire di averci provato.

Andrea Visconti

giovedì 4 luglio 2013

Autunno caldo, euro agli sgoccioli?

Come previsto in un post di qualche settimana fa la crisi sta portando alla deriva un numero sempre più ampio di paesi, principalmente nell’Europa meridionale.
Gli scenari politico-economici di Grecia e Portogallo (tanto per menzionare i due casi alla ribalta in questi giorni) prefigurano un’altra estate calda sui mercati finanziari.

In Portogallo si dimette il ministro delle finanze in aperta opposizione alle politiche di austerity, derivanti dalla necessità di sottostare ai dettami di BCE, FMI e UE dopo la concessione di un prestito da 78 miliardi nel 2012. L’instabilità politica, chiaramente, ha agitato i mercati che hanno portato i rendimenti sui BOT decennali oltre l’8%. La disoccupazione è al 17,5% e gli interventi nel campo sociale ed economico stanno mettendo in ginocchio il paese.

In Grecia la situazione è ancora più grave: l’ultimatum della Troika impone di fornire in brevissimo tempo le garanzie necessarie per accedere a una nuova parte di aiuti (8,1 miliardi) previsti per agosto; queste garanzie esigono ancora una volta tagli, sacrifici, dismissioni.
Il Governo di Atene dovrà accelerare sulla riforma del lavoro, strutturato su base “tedesca” (minijob) con norme che introducano una bassa retribuzione per ridurre la disoccupazione, offrendo a chi assume la possibilità di negoziare una retribuzione massima di 350 euro/mese. Oltre a questo si staglia all’orizzonte il timore di un crack scatenato dal consistente quantitativo di titoli di Stato presenti nell’istituto nazionale di previdenza e di mutuo soccorso. Questo porta a situazioni insensate, come ad esempio il pagamento della prima mensilità della pensione a un anno dal termine del periodo lavorativo. E se vogliamo aumentare l’inquietudine, possiamo ricordare che il Fondo Monetario Internazionale pochi mesi fa ha fatto pubblica ammenda, svelando come gli interventi in Grecia siano stati sbagliati e dannosi.
George Soros ha dichiarato che la Grecia non potrà mai più riprendersi, specialmente in questa situazione “euro-centrica”. E le ultime richieste lo confermano.

La situazione è destabilizzata, in Francia il movimento anti-euro comincia a nutrirsi sempre di più, la sfiducia in merito alle politiche del Presidente Hollande è sempre più forte, da questo paese potrebbe arrivare quello stimolo che porterà a una ridiscussione dei trattati prima, e allo scioglimento dell’unità monetaria poi.

In Italia, volendo sollevare per poche righe il velo pietoso che ricopre la nostra classe politica, ci si divide fra l’ennesima dimostrazione di “euriasmo” di Enrico Letta, premier con delega agli entusiasmi europei, e le parole dei ministri Saccomanni [Economia ] (si vede la luce in fondo al tunnel) e Zanonato [Sviluppo economico] (siamo al punto di non ritorno).

Ogni commento è puramente superfluo.

giovedì 27 giugno 2013

Incentivi per il lavoro che non c'è

Il tentativo di procrastinare l’ennesima mazzata alle tasche degli italiani è riuscito.
Il Governo Letta (o Berlusconi ?) è riuscito nell’intento di evitare l’aumento dell’IVA (dal 21 al 22%) rimandandolo di un paio di mesi spostando, di fatto, il problema a dopo l’estate. Fermo restando che si tratta di una manovra recessiva, è ormai assodato che questa decisione provocherà ancora una volta una riduzione del gettito, così come fu per il precedente aumento; lo Stato italiano seguita così a navigare a vista, fra l’illusione di un “favore” fatto ai suoi cittadini e la convinzione falsa che uno straccio di ripresa sia possibile.

Non è certo questo quello che serve al paese, ma la menzogna continua a diffondersi senza possibilità di mettere al centro della discussione il vero problema, cioè l’euro e i trattati europei. Gli stessi incentivi per l’occupazione, che secondo l’esecutivo potrebbero creare 200 mila posti di lavoro nei prossimi 18 mesi sembrano un tentativo di chi arriva stremato vicino alla fine e forse inizia a rendersi conto che il tessuto produttivo italiano sta collassando.
Potrebbe sembrare demagogico, ma parlando con gli imprenditori ci si rende conto di quali siano le loro reali necessità, si avverte il senso di avvilimento di fronte alle istituzioni che appaiono sempre di più sorde, si scopre come il problema non sia il costo del lavoratore se l’azienda chiude.
Quali saranno, quindi, i posti di lavoro creati?
Se un’azienda perde commesse perché si ritrova con una moneta sopravvalutata del 30% ed è costretta a chiudere a cosa le servono incentivi per le assunzioni? Poi, per l’ennesima volta, ci siamo resi conto di come le riforme del Governo Monti (lavoro, pensioni) siano state non solo frettolose ma profondamente errate.

Ma più di questo si avverte forte il bisogno di un dibattito pubblico serio e concreto sulle strategie da adottare perché di fronte a noi si presentano solo due strade: la prima, se vogliamo rimanere in questa Europa, ci obbliga necessariamente a ridiscutere i trattati, far sentire la nostra voce e cercare di uscire dai vincoli stringenti (e assassini) che ci stanno sgretolando; la seconda è decidere come e quando abbandonare il progetto dell’euro, dal sapore vagamente fascista, riprendendoci la sovranità monetaria e rimettendo di conseguenza la Banca centrale italiana a disposizione del Governo per potersi rifinanziare e rimettere in moto il tanto caro “sistema paese”.

Naturalmente tutto questo è puro vagheggiamento, i politici attuali non solo si dimostrano incapaci e strenuamente “euristi” ma contribuiscono ad alimentare un inquietante interrogativo: sono in grado, secondo voi, di gestire in modo coordinato un’uscita dell’Italia da questa trappola?

Secondo me no, nel modo più assoluto.

giovedì 20 giugno 2013

Da chi vogliamo farci colonizzare?

La terribile crisi che imperversa in Italia morde le caviglie anche di chi era considerato un imprenditore “virtuoso”, non nel senso del rigore ma dei suoi risultati economici.

Le aziende cedono il passo a un sistema banditesco messo in atto attraverso la creazione di un’area non ottimale ma funzionale al bisogno di pochi a scapito di molti. Il G8 di questi giorni ha confermato che la visione politica di una seria riflessione sui problemi europei non c’è, la possibilità che qualcosa cambi è ancora e solamente legata alla velocità con cui paesi più valenti (o nazionalisti) del nostro precipiteranno verso il baratro, fino al rischio di tensioni sociali incontrollabili.

E’ bene porre l’accento sul fatto che l’eventualità di un intervento massiccio della FED sui mercati dei titoli di Stato europei manifesta le vere intenzioni, che si sposano con la possibilità di allentare i vincoli sugli scambi commerciali fra i due continenti.
Se da un lato questa notizia può essere accolta con interesse dai paesi del Sud (dove, molto probabilmente, avverrebbe il maggior numero di acquisiti dettati dai rendimenti più elevati) dall’altro ci si accorge che l’incognita di rimanere ancora di più intrappolati in questo euro si renda concreto.

E’ naturale che gli USA, a fronte di un massiccio acquisto di debito, vogliano in cambio determinate garanzie sulla tenuta della moneta unica, esattamente come la Germania ha fatto quando ha spinto per la rigidità del cambio; un pericolo svalutazione (come quello ipotizzabile dell’Italia intorno al 20-25% in caso di eurexit) non può essere contemplato. A questo si aggiunge una considerazione puramente economica, da chi conviene farsi “colonizzare”, dagli Stati Uniti o dalla Germania? 

L’esperienza con suddetto “partner” europeo l’abbiamo già saggiata e ancora oggi ne paghiamo le conseguenze, ma quella con gli USA potrebbe essere anche peggiore; chi parla di “piano Marshall” del terzo millennio non sa evidentemente cosa dice, qui non si tratta di un aiuto post-bellico, non c’è da ricostruire un continente dal punto di vista infrastrutturale ma da un punto di vista economico e nazionale. Gli Stati devono essere aiutati nel completare un processo, che appare già in movimento, di riacquisizione dei propri diritti sanciti dalle rispettive Costituzioni, devono riprendersi la sovranità monetaria e ritornare ad adattare la propria economia disegnandola in base al proprio tessuto produttivo.  

Nel caso in cui i debitori (quindi i padroni del nostro destino) diventassero gli Stati Uniti, la pressione per la liberalizzazione degli scambi commerciali diventerebbe incessante. La potenza di fuoco sui mercati sarebbe molto più grande di quella del Giappone, dove gli effetti della prima parte dell’Abenomics stanno dando segnali di rallentamento (fisiologico e forse provocato); dobbiamo davvero continuare ad alimentare la convinzione che l’unica forma di finanziamento è quella del collocamento sui mercati dei nostri titoli o forse varrebbe la pena ricominciare la stesura di un pensiero economico che metta in discussione l’autonomia delle Banche centrali dei singoli Stati?

Vogliamo davvero portare in territorio negativo i tassi sui depositi in BCE per ottenere un nuovo incremento di debito nei paesi dell’Europa meridionale (i capitali non sarebbero immobilizzati ma reinvestiti nell’acquisto di titoli di Stato ad alto rendimento, non certo utilizzati per finanziare le banche né tantomeno le attività produttive)?

giovedì 13 giugno 2013

Il prezzo sociale della crisi

La considerazione europea in questi giorni è verosimilmente ai minimi storici.
La Corte Costituzionale tedesca mette sotto torchio il programma della BCE di acquisto illimitato dei titoli di Stato (OMT), operazione sapientemente architettata con l'unico scopo di rasserenare i mercati nell’estate del 2012.

La decisione sarà presa in autunno, posticipata rispetto alle elezioni tedesche, ma questo non può rassicurarci; la convinzione che tutto questo sia il preludio ad una disgregazione della moneta unica è forte, la situazione socio-economica di molti paesi raffigura un punto di non ritorno per un progetto oltremodo fallimentare per la maggior parte dei partecipanti che pagano smisurate difficoltà a riprendere una marcia perlomeno decorosa rispetto al proprio potenziale.

Questa situazione porta anche altri squilibri, forse più gravi di quelli economici, ossia quelli sociali; e non si parla solo delle troppe morti dovute all’assenza di lavoro o di prospettiva ma anche della sfiducia che prende sempre più piede nelle generazioni, attuali e future. Il senso di disorientamento e d’impotenza di fronte alla meschinità delle istituzioni, inadeguate e poco propense (anzi per nulla) a valutare ipotesi alternative per il bene dei propri cittadini rappresenta il primo scoglio da affrontare e non è certo questione di poco.

Non si vede all'orizzonte nessun rappresentante istituzionale che non sia schierato con il pensiero unico, allineato ai dettami europei e alla ricerca di compensare la mancanza di personalità con qualche sporadica concessione, che si rivela poi essere più dannosa che utile; ma il male non è solo istituzionale, la crisi che ormai serra questo paese da oltre cinque anni è un macigno che non lascia spazio all'ottimismo, al credere che un domani la situazione potrà migliorare, che il sacrificio attuale aprirà le porte ad una nuova primavera.

Non so se i militari in guerra hanno questo tipo di visione, se la cognizione che un giorno il massacro che li circonda, e a volte li coinvolge, finirà e lascerà spazio ad una ricostruzione; questo manca ora, la prospettiva, il bisogno primario della consapevolezza di un domani migliore dell'oggi. Facile scadere nella retorica, ma questo pensiero coinvolge anche chi, a conti fatti, non se la passa male.

Il rischio della sottrazione delle certezze maturate e duramente conquistate aleggia sulla testa di tutti, nessuno escluso; è tragico anche solo pensarlo, ma forse una speranza è che il fondo arrivi ad essere toccato così in fretta che la risalita inizi presto, che il muro di bugie e di convenienze cada lasciando spazio ad una nuova stagione di riequilibrio per ridare la speranza a tutti quelli che l'hanno persa.

giovedì 6 giugno 2013

A chi conviene la Lettonia?

La Lettonia, piccolo paese con poco più di due milioni di abitanti, si prepara a quanto pare a diventare il 18° paese dell’Unione Europea ad adottare l’euro dal 1° gennaio 2014, rimpiazzando così il Lats lettone.
Con un Pil di circa 30 miliardi di euro la Lettonia presenta alcune analogie con altri paesi della zona euro, soprattutto con Cipro.

I depositi bancari di non residenti ammontano a circa sette miliardi di euro, approssimativamente un quarto del suo Pil; certo, nulla a che vedere con il 150% sul prodotto interno rappresentato dai depositi ciprioti, ma la possibilità che anche la Lettonia sia meta dei magnati principalmente russi è concreta. Il paese fonda la sua economia principalmente sull’industria meccanica e non sui servizi come Cipro, rappresenta un importante centro commerciale dei paesi baltici e di sbocco per alcuni mercati europei come ad esempio il nostro, quello italiano, che nel 2012 ha esportato per 426 milioni di euro.

I dubbi su quest’ingresso nascono essenzialmente dalla netta presa di posizione della popolazione contro l’ingresso nella moneta unica, a Riga un partito contrario all’adesione ha raccolto il 58% dei voti. Le premesse, dunque, non sono delle migliori tenendo conto anche del fatto che la Commissione Europea ha subito pressato il governo lettone affinché si mantenga inflessibile nei confronti della propria politica contenitiva per mantenere l’inflazione sui livelli attuali (1,3% nei primi quattro mesi del 2013) e conservare il proprio rapporto disavanzo pubblico/Pil vicino ai valori attuali (il Governo di Rigalo è stato in grado di portarlo dall’8,1% del 2010 al 1,2%).

La Lettonia in sostanza ha i cosiddetti “parametri” a posto, al momento, riuscendo a riportarsi in linea con i parametri UE, e mantiene un discreto valore in merito ai tassi d’interesse (con una media del 3,8%); inoltre il suo debito pubblico è, insieme con quello italiano, l’unico con un alto indice di sostenibilità nel lungo periodo.

Ma allora perché entrare nell’euro?

Gli indicatori del paese sono in costante crescita, ad esempio il Pil lettone ha avuto questo tipo di tendenza:


con un lieve e fisiologico calo nel 2009-2010 per via della crisi ma poi in risalita e con prospettive di crescita; anche il Pil pro-capite è in ascesa:


e’ cresciuto di poco nel periodo di fragore della crisi mondiale ma è pur sempre cresciuto; allora dobbiamo cercare altrove. La svalutazione del Lat Lettone negli ultimi tre anni ha seguito l'evoluzione della crisi ed ha potuto fluttuare aggiustando gli scompensi, ma nonostante questo si sono poste le basi per l’ennesima dinamica “centro-periferia” tanto cara alla Germania, infatti la bilancia commerciale lettone è in costante deficit:


mentre gli investimenti stranieri in costante aumento:


tutto questo potrebbe portare il paese ad essere protagonista dell’ennesima dimostrazione di come la politica rivolta prevalentemente all’export della Germania (e dei suoi satelliti) causi danni ad economie troppo deboli che risentono di un massiccio afflusso di capitali e di investimenti diretti rivolti primariamente al M&A (Merger and Acquisition) che noi comprendiamo piuttosto bene.

Allora per chi possono essere i vantaggi dell’ingresso della Lettonia nell’euro?
Per la sua economia o per quella della Germania?
Il tempo ci dirà ed entro il 2014, se l’euro resisterà, avremo tutte le sentenze.

martedì 4 giugno 2013

Le previsioni di Draghi sono rivolte ai mercati

Le parole di Mario Draghi da Shangai sono un ottimo tranquillante per mercati a rischio fermento (vedi il calo della Cina e le difficoltà della borsa giapponese) ma da un punto di vista logico sono completamente prive di senso.
La ripresa da lui indicata a partire dalla seconda metà del 2013 sarà favorita dalla politica della BCE (basso costo del denaro con un altro taglio dei tassi d’interesse) e dalle esportazioni; fino ad oggi la prima iniziativa è risultata di debole efficacia in quanto il passaggio dal basso tasso all’allentamento delle restrizioni creditizie da parte degli istituti è stato debole e in alcuni casi inesistente, a causa delle sofferenze che anche in Italia cominciano ad essere un’ incognita.
La politica dell’export, invece, è sufficiente sotto l’aspetto del numero ma molto meno opportuna dal punto di vista pratico, perché agevola unicamente le economie forti che si basano su questo sistema, riducendo ancora di più la domanda interna che viene così ulteriormente soffocata (mantra della Germania).
Caso rilevante è la Francia, dove la bilancia dei pagamenti si è spostata nel giro di dieci anni da un discreto attivo a un deficit sopra il 2% del Pil; perché? Perché la Francia sta diventando la nuova frontiera tedesca, dopo aver inondato di credito e prodotti i paesi dell’Europa meridionale, aggravandone la crisi (vedi Spagna, Portogallo, Grecia), ora l’economia e l’industria tedesca si stanno spostando verso la propria frontiera; a supporto di queste affermazioni ecco il grafico che mostra l’andamento della bilancia dei pagamenti dal 2007 al 2013 (stimato):


Tutto questo sbilanciamento, come già accaduto nei “PIIGS”, racchiude un aumento del debito privato che è il vero motore della crisi economica; ne è riprova il fatto che il debito pubblico è molto aumentato negli ultimi due anni e il rapporto debito/Pil non è tanto lontano da quello italiano.

I francesi ora sperimentano la concezione tedesca di “euro” e “cooperazione” fra i vari paesi come i trattati (Lisbona) richiedono e che la Germania non ha mai voluto applicare, per ovvi motivi.
Ma il padrone dell’Europa non sta così bene, con il Pil inferiore dello 0,3% su base annua nel primo trimestre 2013 dopo aver registrato una flessione dello 0,7% nell’ultimo trimestre 2012 (sempre su base annua). Anche i paesi periferici, come Finlandia e Olanda, registrano andamenti in ribasso; a tutto questo si sommano i problemi cronici e ben noti come quello di casa nostra, di Spagna, Portogallo e Slovenia oltre che l’aggravarsi della situazione greca, con emissari della Troika in arrivo ad Atene per verificare il taglio dei dipendenti pubblici richiesto dalle organizzazioni che hanno ben vigilato sul compiersi di questa catastrofe.

A fronte di tutto questo, dove trova Draghi la fiducia per parlare di ripresa dalla seconda metà di quest’anno? Quali sono i parametri che lo portano a tale previsione? Sembra quasi commensurabile all’ottimismo (a tratti entusiasmo o “euriasmo” senza senso) dei nostri politici all’uscita dell’Italia dalla procedura per deficit eccessivo che sbloccherebbe (a loro dire) molti denari per le decine di riforme promesse e per tappare i buchi creati dalle tasse rimosse per ragioni elettorali (quali e quanti soldi non è dato sapere, soprattutto dopo aver inserito il pareggio di bilancio in Costituzione).

Il quotidiano “Libero” oggi in edicola apre in prima pagina con l’introduzione ad un’inchiesta sull’abbandono dell’euro e i possibili scenari, dimostrando che anche il “mainstream” di fronte alla crescente protesta, piano piano comincia a indietreggiare.

giovedì 30 maggio 2013

"Euriasmo" di Enrico Letta

L’uscita dalla procedura per deficit eccessivo dell’Italia, esercitata dall'Unione Europea a partire dal 2009, è stata accolta in modo entusiastico dal Presidente del Consiglio, il quale preso da uno slancio nazionalistico ha ringraziato gli italiani per i sacrifici compiuti al fine di raggiungere questo scopo.

Detto che sarebbe interessante poter discutere con Enrico Letta di questo, portando una rappresentanza degli italiani da lui ringraziati a un tavolo di confronto, voglio rilevare come ancora una volta il patriottismo arriva solo per difendere le proprie posizioni (bugie) politiche mentre quando si richiede risolutezza nella ridiscussione dei trattati che stanno visibilmente strangolando il paese di questo “amor di patria” non c’è traccia perché “ce lo chiede l’Europa”, “più Europa, ci vuole più Europa” etc.

L’obbligo di perseguire la strada “euro-peista” (sia ben chiara la distinzione) traccia le dichiarazioni appassionanti del nostro premier, che evidentemente non essendo incompetente e tantomeno stupido in materia è ben conscio della sua menzogna.
La Commissione Europea rimette l’Italia in riga come aveva fatto nel 2011 attraverso una serie di linee guida che inevitabilmente tracceranno le politiche economiche del nostro paese almeno fino al 2015-2017, a patto naturalmente che l’euro non venga meno nel corso dei prossimi due, tre anni.
Dal paper pubblicato dall’UE traiamo alcuni passaggi che illustrano con chiarezza cosa ci attende: ad esempio “attuazione piena delle riforme strutturali” e “incanalare il rapporto debito/PIL su un percorso discendente a partire dal 2014”, il che significa agire quanto prima sul costo (dal lato dei salari, naturalmente) del lavoro per aumentare la produttività: “Nel periodo 2011-2013 le parti sociali hanno concordato, in accordi successivi, un nuovo quadro per la determinazione dei salari, sostenuto da incentivi fiscali a promozione di un maggior allineamento dei salari alla produttività e alla situazione locale del mercato del lavoro” e tagliare la spesa corrente dal punto di vista degli investimenti e del mantenimento dei servizi; queste due mosse rappresentano l’unica possibilità di intervento del Governo per ridurre le sue uscite, a patto ovviamente che non si contempli un altro attacco speculativo (con un incremento delle spese per interessi) anche se questa manovra europea, di stampo ed effetto puramente politico, dovrebbe contenerne il rischio (Slovenia e Portogallo permettendo).

Si pone l’accento inoltre su un altro aspetto che avrebbe dovuto quantomeno limitare l’entusiasmo (o eurosiasmo) di Letta: “Permangono debolezze considerevoli nell’efficienza della pubblica amministrazione in termini di norme e procedure, qualità della governance e capacità amministrativa, con conseguenti ripercussioni sull’attuazione delle riforme e sul contesto in cui operano le imprese”.

A fronte di queste e altre indicazioni vengono alcune considerazioni: dal punto di vista del rispetto dei trattati sottoscritti le indicazioni dell’UE sono perfettamente in linea con il programma e rappresentano la strada giusta per insistere nella direzione del rigore, anche a costo di un prolungarsi della crisi (probabile, se osserviamo le stime OCSE) e del continuo frammentarsi della zona euro, smentendo e svelando le false promesse di allentamento dell’austerity sbandierata in questi giorni che ha portato a un’estensione dei tempi di rientro nei parametri di deficit/Pil solo ed esclusivamente ai paesi funzionali alla Germania (come Francia e Spagna).

La seconda riflessione, chiaramente, riguarda l’opportunità di arrivare quanto prima ad intavolare il dibattito per una soluzione a questo enorme problema che si chiama unione monetaria.
L’economia dell’Italia è al tappetto, salvo rare eccezioni, e continua a essere stritolata nella morsa di una moneta troppo forte e di vincoli troppo danneggianti (dal pareggio di bilancio al fiscal compact fino alla necessità di rifinanziarsi sui mercati non potendolo fare all'interno); a tal proposito sembra vengano meno le attese europee di acquisto titoli da parte del Giappone, l’entusiasmo dei mercati del vecchio continente verso l’Abenomics sembra scemato per la scarsa propensione alla diversificazione verso l’estero degli investitori nipponici, perlomeno fino ad oggi.

giovedì 23 maggio 2013

Un aggravarsi della crisi è dietro l'angolo?

Se guardiamo la situazione economica globale oggi, maggio 2012, non possiamo non accorgerci di alcuni fattori che ci indicano una nuova stagione di attacchi speculativi.
Da un lato ci sono due paesi in forte, fortissima crisi, il Portogallo e la Slovenia; dall’altro c’è una condizione di mercato sul versante dei tassi d’interesse (e salvataggi connessi della BCE) simile a quello del 2009 che precedette e covò i guai dell’estate 2011.

Il nesso fra queste due possibili cause risiede nel livello di esposizione finanziaria sull’estero e il differenziale sui rendimenti dei titoli di Stato dei due paesi in oggetto.
Oltre a questo possiamo aggiungere l’enorme liquidità immessa sul mercato dalle politiche espansionistiche di quantitive easing degli USA e del Giappone.

Di elementi potenzialmente scatenanti ce ne sono molti ma andiamo per ordine; la situazione del Portogallo è similare a quella dell’Italia del 2011 con le differenze strutturali date dalla diversa natura economica e sociale dei due paesi; si trova stretto nella morsa dell’austerity, con una pressione fiscale cresciuta, tra il 2010 e il 2011, dell’1,7% (dal 31,5% al 33,2%) e con un governo guidato da Pedro Passos Coelho che agisce nella direzione indicata dall’Europa, ovvero quella del contenimento dissennato della spesa pubblica (che la Troika chiama “spreco pubblico”, ben cosciente del diverso significato delle due definizioni); per avvicinare gli obiettivi che l’Europa chiede il Primo ministro dovrà effettuare tagli per sei miliardi di euro a fronte di un prodotto interno che scende progressivamente, traducendo questa richiesta in una interruzione di spesa per i servizi primari (sanità, scuola, le abituali voci..).
Oltre a questo il suo spread, nonostante si sia man mano ridotto da dieci mesi a oggi, resta comunque molto elevato, nell’ordine di quasi 390 punti base (maggiore di circa 100 rispetto a quello italiano).

L’altro paese che desta le attenzioni dei mercati e dell’Europa è la Slovenia, il paese dell’eurozona con il rendimento più alto sui titoli di Stato decennali. L’ultima collocazione, successiva al declassamento di Moody’s a “junk” (spazzatura), è stato un successo a detta del Governo di Lubiana ma a che prezzo? 4,75% sui titoli a cinque anni e addirittura 5,85% sui decennali, prestazioni che collegate a uno spread che ha raggiunto i 451 punti base non possono non far riflettere.
Il paese ha un debito pubblico basso, di poco superiore al 50% del PIL, ma presenta sofferenze bancarie altissime a causa primariamente di sciagurate valutazioni (forse subordinate a episodi di corruzione, ancora da verificare) nell’erogazione dei prestiti.
Il problema nasce dall’elevata concentrazione di banche pubbliche che sono proprietarie di circa il 40% dei prestiti bancari erogati (addirittura due banche pubbliche, la Nova Ljublijanska Banka e la Nova Kreditna Banka Maribor hanno prestato rispettivamente il 20% e il 15% della loro disponibilità a un solo soggetto!) e che ora sono in sofferenza anche a causa delle problematicità congiunturali. Naturalmente questo ha condotto a un aiuto da parte dello Stato e un gap fra domanda (negli ultimi anni, talvolta, eccessiva) e offerta di credito che non può più essere colmato. La ricetta imposta, ovviamente, è sempre la medesima, austerità e sacrificio (per il popolo) e Cipro Style: prelievo forzoso dell’1% su tutte le buste paga, tasse sui beni immobili (l’IMU in salsa slovena), aumento dell’IVA, privatizzazione selvaggia di compagnia aerea di bandiera, aeroporto di Lubiana, banche, taglio dei salari pubblici ed eventualmente altre tasse che spingeranno nuovamente in alto la pressione fiscale dopo un trend in diminuzione negli ultimi 6-7 anni.
Il tutto condito, come abbiamo visto, da un tasso sui titoli di Stato cospicuo che gonfierà il debito pubblico forzando come sempre le politiche economiche, nella miglior tradizione euro-austera, ad ulteriori tagli nei prossimi mesi.

Questo è il quadro dei due paesi europei maggiormente esposti al momento a un possibile default o quantomeno ad un altra cura stile Grecia (e Cipro).

Osserviamo ora la situazione di casa nostra.

Lo stimolo propulsivo che le due superpotenze hanno messo in atto per incrementare lo sviluppo ed accelerare la ripresa potrebbe ripercuotersi sul nostro bilancio; il timore per un possibile “euroexit” o default da parte dell’Italia sembra (purtroppo) tramontato ma a breve potrebbe ripresentarsi per due ragioni: da una parte la costante incertezza politica, sempre in bilico nonostante il nostro Primo Ministro si sia speso in un profluvio di belle parole pro-Europa o meglio pro-Euro, e dall’altra le elezioni in Germania di settembre che potrebbero condurre il paese principale a ridiscutere non solo la sua posizione nella moneta unica ma anche quella di tutti gli altri stati.
Ecco perché l’eventuale crisi portoghese e slovena sono strettamente legate a noi, un possibile peggioramento dei due paesi con conseguente azione della BCE in aiuto potrebbe spingere i creditori netti a ricercare maggiori garanzie dall’Italia che si tramuterebbero nella “tassa” a copertura del rischio uscita (e svalutazione) e quindi in interessi sul debito più alti; in sostanza ci troviamo in mezzo al fuoco incrociato Europa-USA-Giappone: se l’estero interrompe l’acquisto di titoli italiani (sudden stop) (sotto il 40% all’apice della crisi nel 2011) i bilanci si aggravano (con conseguente ridimensione al rialzo delle imposte a fronte di una produzione in costante calo) ma se gli stessi considerano la possibilità di un’uscita dell’Italia dall’euro richiederanno maggiori remunerazioni a fronte del rischio.

La situazione è intrecciata e molto complessa, il rischio che gli investitori esteri ci considerino “to-big-to-fail” è notevole ma non scontato, l’attuale calma apparente potrebbe essere solo il preludio ad un ennesimo attacco che potrebbe condurci su binari anche peggiori di quelli che percorriamo adesso.

giovedì 16 maggio 2013

L'americanizzazione

Il pareggio di bilancio che abbiamo introdotto in Costituzione e di cui abbiamo parlato nel post precedente implica una serie di aggiustamenti, orientati principalmente alla spesa pubblica.
Il rapporto deficit/pil obbligato (3% al massimo) strozza ogni possibile politica d’investimenti e di espansione.
Ma c’è dell’altro. 
A fronte di una produzione in costante calo (-5,2% a marzo su base annua) e una disoccupazione in aumento lo Stato, per far fronte ai sostegni e ai sussidi sociali, deve spendere soldi che non potrebbe corrispondere, pena un possibile riavvio della procedura d’infrazione numero due, dopo che la prima sarà chiusa a fine maggio. 

Uno Stato privo di leve economiche costretto a rispettare accordi troppo assoggettanti e tagliati a misura di altre economie (e altre monete) perde la sua possibilità di consolidare l’economia sua e dei suoi cittadini, esponendosi al vincolo dei mercati e al debito estero. La politica di austerità impone sacrifici alle classi medie, ovviamente, alle quali è richiesto più di quello che dovrebbero immettere in termini d’imposte, strozzando la domanda e portando con sé una scia di fallimenti e di occupazione persa; il Governo, sottoposto al vincolo esterno e alla “compattezza fiscale”, reagisce garantendo il contenimento della propria spesa per continuare a essere parte di un progetto fallimentare (l’euro, inteso come moneta unica) destinato allo sgretolamento.

L’indirizzo che questo tipo di politica ha preso è chiaro ed è orientato a un percorso di “americanizzazione” dello Stato sociale, togliendo progressivamente risorse agli istituti fondamentali della nostra società (sanità, istruzione, cultura); la sottrazione del gettito fiscale, conseguenza della riduzione dell’occupazione e relativa tassazione, deve essere bilanciata con l’accetta imposta ai servizi che sono stati la base della riformazione del nostro paese nel dopoguerra.
Lo Stato ha sempre corrisposto (e tuttora continua a farlo) per questi servizi, la sanità ad esempio presenta un grafico in crescita, seppur modesta, anno dopo anno:


L’orientamento sarà sempre di più quello della privatizzazione di queste prestazioni fondamentali, spingendo la classe media a sofferenze sempre più marcate mentre la politica tenterà di dimostrare la propria forza sulla pelle dei più deboli, sbandierando una supposta efficienza e riduzione dei costi; il contributo alle scuole private, presente in molteplici manovre finanziare degli anni passati, è un altro segnale di questa rotta.

La direzione imposta dall’Europa e dall’euro ha trovato e continua a trovare terreno fertile presso la nostra classe dirigente, soprattutto in quella parte (la cosiddetta “sinistra”) che dovrebbe avere a cuore il destino dei deboli e invece continua a proclamare il progetto europeo come suo vanto senza lasciar spazio alcuno al dibattito, come viceversa accade in molti altri paesi della zona euro (come ad esempio in Germania dove, a sentir loro, sono tutti soddisfatti della condizione in cui si trovano).

mercoledì 8 maggio 2013

Il pareggio di bilancio

Il tema che voglio esaminare oggi è intrinsecamente legato all’attualità politica italiana, alla ricerca di un riequilibrio al taglio dell’imposta sugli immobili, l’IMU, promesso dal nuovo esecutivo. Di questo abbiamo già parlato nel post precedente, oggi analizzerò il concetto di pareggio di bilancio. Questo concetto, molto criticabile, è stato perfino inserito nella Costituzione italiana.

Lo sapevate?

Nell’aprile dello scorso anno il governo Monti ha deciso di modificare l’articolo 81 assoggettando il nostro paese per il futuro a non poter più agire in termini di deficit (anche in caso di ritorno alla moneta sovrana, attenzione).

Il testo recita: ”Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. 

Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale.”

Oltre a questo il passato governo è interceduto anche in materia di enti locali, costringendo anch’essi al rispetto del pareggio di bilancio con il risultato di escluderne ogni possibilità di debito per finanziare la propria gestione.
In sostanza si è deciso, sulle rigide convinzioni economiche europee (tedesche), di impedire al nostro Stato di spendere a deficit per dar stimolo alla domanda e contribuire a una (seppur ridottissima) ripresa. La conseguenza è manifesta anche a persone non avvezze alle questioni economiche; il nostro paese ha trovato un esecutore che, con la complicità dei partiti che ora fanno finta di opporsi all’austerity, ha deturpato il testo sovrano del nostro ordinamento attraverso la revisione di una sua parte che si rivelerà dannoso e potenzialmente letale per l’Italia.

Perché?

Perché la spesa a deficit è basilare in periodi recessivi, aiuta a ridare slancio all’economia, mette in gioco il meccanismo propulsivo dello Stato che aiuta a far convergere domanda e crescita. Il meccanismo, trasformato in legge, appare sempre più come quello della coperta, costretta dalle percentuali rigorose a lasciare sempre spoglia una parte dei concorrenti a questo gioco (di solito sempre i più deboli).
Da una parte lo Stato, costretto a rifinanziarsi attraverso l’emissione di titoli di Stato, deve metter in conto la misura d’interessi che su questi dovrà pagare, oltre alle spese ordinarie; dall’altra il cittadino che si vede privato sempre di più di servizi sostanziali (pensiamo solo ai tagli alla sanità, alla cultura e all’istruzione).

Sappiamo che la crisi non si è generata per il debito pubblico ma a causa della crescita di quello privato. La spesa pubblica italiana, in percentuale del Pil, è sempre stata sotto controllo, in media con quella degli altri paesi europei:


ovviamente tendente al rialzo dal 2008, anno dello shock Lehman, a causa della maggior incidenza della spesa pubblica e del diminuire del prodotto interno. A fronte di un debito pubblico molto alto, si può vedere in questo grafico:


la produzione italiana è sempre stata in grado di garantirne il sostanziale controllo (linea Deficit/Pil):


Le politiche economiche in atto nell’euro-zona sono distruttive, nel breve-medio periodo, e insufficienti, portate a considerare come unico impulso quello dell’abbassamento dei tassi d’interesse che, oltre a trasmettersi in un periodo di diversi mesi, porta con sé dubbi in merito alla sua reale utilità.
Il trasferimento dalle banche (in sofferenza) ai privati (ancora più in sofferenza) non avviene nella misura che la BCE si aspetterebbe e le politiche in tal senso sono demandate ai singoli stati che si trovano davanti al seguente scenario: da una parte sono state private della possibilità di agire sul piano di un rifinanziamento alternativo, delegando questo tipo di leva al controllo della moneta unica, ma dall’altra devono far si che i propri bilanci siano a pari e devono sostenere il credito tramite non si bene quali operazioni.

E’ evidente che questo tipo di politica, quella del taglio dei tassi, non solo non funziona ma non aiuta nemmeno in prospettiva, quindi per riprendere il tema iniziale di questo scritto, come pensa il Governo italiano (ma anche quello spagnolo, portoghese, greco, etc.) di poter orientare la propria politica in senso espansivo?

Il moltiplicatore ci insegna che l’equazione “togliere tassa – imporre tassa = 0” non è vera, non funziona e non funzionerà mai, i paesi coinvolti in questa lunga corsa al disastro sono costretti a questuare rinvii delle scadenze dei loro impegni che finanzieranno con altri debiti e poi con altri debiti all’infinito alla ricerca di quel pareggio di bilancio che noi italiani (più bravi e furbi) abbiamo infilato nella Costituzione per compiere i “compiti a casa”.