giovedì 27 giugno 2013

Incentivi per il lavoro che non c'è

Il tentativo di procrastinare l’ennesima mazzata alle tasche degli italiani è riuscito.
Il Governo Letta (o Berlusconi ?) è riuscito nell’intento di evitare l’aumento dell’IVA (dal 21 al 22%) rimandandolo di un paio di mesi spostando, di fatto, il problema a dopo l’estate. Fermo restando che si tratta di una manovra recessiva, è ormai assodato che questa decisione provocherà ancora una volta una riduzione del gettito, così come fu per il precedente aumento; lo Stato italiano seguita così a navigare a vista, fra l’illusione di un “favore” fatto ai suoi cittadini e la convinzione falsa che uno straccio di ripresa sia possibile.

Non è certo questo quello che serve al paese, ma la menzogna continua a diffondersi senza possibilità di mettere al centro della discussione il vero problema, cioè l’euro e i trattati europei. Gli stessi incentivi per l’occupazione, che secondo l’esecutivo potrebbero creare 200 mila posti di lavoro nei prossimi 18 mesi sembrano un tentativo di chi arriva stremato vicino alla fine e forse inizia a rendersi conto che il tessuto produttivo italiano sta collassando.
Potrebbe sembrare demagogico, ma parlando con gli imprenditori ci si rende conto di quali siano le loro reali necessità, si avverte il senso di avvilimento di fronte alle istituzioni che appaiono sempre di più sorde, si scopre come il problema non sia il costo del lavoratore se l’azienda chiude.
Quali saranno, quindi, i posti di lavoro creati?
Se un’azienda perde commesse perché si ritrova con una moneta sopravvalutata del 30% ed è costretta a chiudere a cosa le servono incentivi per le assunzioni? Poi, per l’ennesima volta, ci siamo resi conto di come le riforme del Governo Monti (lavoro, pensioni) siano state non solo frettolose ma profondamente errate.

Ma più di questo si avverte forte il bisogno di un dibattito pubblico serio e concreto sulle strategie da adottare perché di fronte a noi si presentano solo due strade: la prima, se vogliamo rimanere in questa Europa, ci obbliga necessariamente a ridiscutere i trattati, far sentire la nostra voce e cercare di uscire dai vincoli stringenti (e assassini) che ci stanno sgretolando; la seconda è decidere come e quando abbandonare il progetto dell’euro, dal sapore vagamente fascista, riprendendoci la sovranità monetaria e rimettendo di conseguenza la Banca centrale italiana a disposizione del Governo per potersi rifinanziare e rimettere in moto il tanto caro “sistema paese”.

Naturalmente tutto questo è puro vagheggiamento, i politici attuali non solo si dimostrano incapaci e strenuamente “euristi” ma contribuiscono ad alimentare un inquietante interrogativo: sono in grado, secondo voi, di gestire in modo coordinato un’uscita dell’Italia da questa trappola?

Secondo me no, nel modo più assoluto.

giovedì 20 giugno 2013

Da chi vogliamo farci colonizzare?

La terribile crisi che imperversa in Italia morde le caviglie anche di chi era considerato un imprenditore “virtuoso”, non nel senso del rigore ma dei suoi risultati economici.

Le aziende cedono il passo a un sistema banditesco messo in atto attraverso la creazione di un’area non ottimale ma funzionale al bisogno di pochi a scapito di molti. Il G8 di questi giorni ha confermato che la visione politica di una seria riflessione sui problemi europei non c’è, la possibilità che qualcosa cambi è ancora e solamente legata alla velocità con cui paesi più valenti (o nazionalisti) del nostro precipiteranno verso il baratro, fino al rischio di tensioni sociali incontrollabili.

E’ bene porre l’accento sul fatto che l’eventualità di un intervento massiccio della FED sui mercati dei titoli di Stato europei manifesta le vere intenzioni, che si sposano con la possibilità di allentare i vincoli sugli scambi commerciali fra i due continenti.
Se da un lato questa notizia può essere accolta con interesse dai paesi del Sud (dove, molto probabilmente, avverrebbe il maggior numero di acquisiti dettati dai rendimenti più elevati) dall’altro ci si accorge che l’incognita di rimanere ancora di più intrappolati in questo euro si renda concreto.

E’ naturale che gli USA, a fronte di un massiccio acquisto di debito, vogliano in cambio determinate garanzie sulla tenuta della moneta unica, esattamente come la Germania ha fatto quando ha spinto per la rigidità del cambio; un pericolo svalutazione (come quello ipotizzabile dell’Italia intorno al 20-25% in caso di eurexit) non può essere contemplato. A questo si aggiunge una considerazione puramente economica, da chi conviene farsi “colonizzare”, dagli Stati Uniti o dalla Germania? 

L’esperienza con suddetto “partner” europeo l’abbiamo già saggiata e ancora oggi ne paghiamo le conseguenze, ma quella con gli USA potrebbe essere anche peggiore; chi parla di “piano Marshall” del terzo millennio non sa evidentemente cosa dice, qui non si tratta di un aiuto post-bellico, non c’è da ricostruire un continente dal punto di vista infrastrutturale ma da un punto di vista economico e nazionale. Gli Stati devono essere aiutati nel completare un processo, che appare già in movimento, di riacquisizione dei propri diritti sanciti dalle rispettive Costituzioni, devono riprendersi la sovranità monetaria e ritornare ad adattare la propria economia disegnandola in base al proprio tessuto produttivo.  

Nel caso in cui i debitori (quindi i padroni del nostro destino) diventassero gli Stati Uniti, la pressione per la liberalizzazione degli scambi commerciali diventerebbe incessante. La potenza di fuoco sui mercati sarebbe molto più grande di quella del Giappone, dove gli effetti della prima parte dell’Abenomics stanno dando segnali di rallentamento (fisiologico e forse provocato); dobbiamo davvero continuare ad alimentare la convinzione che l’unica forma di finanziamento è quella del collocamento sui mercati dei nostri titoli o forse varrebbe la pena ricominciare la stesura di un pensiero economico che metta in discussione l’autonomia delle Banche centrali dei singoli Stati?

Vogliamo davvero portare in territorio negativo i tassi sui depositi in BCE per ottenere un nuovo incremento di debito nei paesi dell’Europa meridionale (i capitali non sarebbero immobilizzati ma reinvestiti nell’acquisto di titoli di Stato ad alto rendimento, non certo utilizzati per finanziare le banche né tantomeno le attività produttive)?

giovedì 13 giugno 2013

Il prezzo sociale della crisi

La considerazione europea in questi giorni è verosimilmente ai minimi storici.
La Corte Costituzionale tedesca mette sotto torchio il programma della BCE di acquisto illimitato dei titoli di Stato (OMT), operazione sapientemente architettata con l'unico scopo di rasserenare i mercati nell’estate del 2012.

La decisione sarà presa in autunno, posticipata rispetto alle elezioni tedesche, ma questo non può rassicurarci; la convinzione che tutto questo sia il preludio ad una disgregazione della moneta unica è forte, la situazione socio-economica di molti paesi raffigura un punto di non ritorno per un progetto oltremodo fallimentare per la maggior parte dei partecipanti che pagano smisurate difficoltà a riprendere una marcia perlomeno decorosa rispetto al proprio potenziale.

Questa situazione porta anche altri squilibri, forse più gravi di quelli economici, ossia quelli sociali; e non si parla solo delle troppe morti dovute all’assenza di lavoro o di prospettiva ma anche della sfiducia che prende sempre più piede nelle generazioni, attuali e future. Il senso di disorientamento e d’impotenza di fronte alla meschinità delle istituzioni, inadeguate e poco propense (anzi per nulla) a valutare ipotesi alternative per il bene dei propri cittadini rappresenta il primo scoglio da affrontare e non è certo questione di poco.

Non si vede all'orizzonte nessun rappresentante istituzionale che non sia schierato con il pensiero unico, allineato ai dettami europei e alla ricerca di compensare la mancanza di personalità con qualche sporadica concessione, che si rivela poi essere più dannosa che utile; ma il male non è solo istituzionale, la crisi che ormai serra questo paese da oltre cinque anni è un macigno che non lascia spazio all'ottimismo, al credere che un domani la situazione potrà migliorare, che il sacrificio attuale aprirà le porte ad una nuova primavera.

Non so se i militari in guerra hanno questo tipo di visione, se la cognizione che un giorno il massacro che li circonda, e a volte li coinvolge, finirà e lascerà spazio ad una ricostruzione; questo manca ora, la prospettiva, il bisogno primario della consapevolezza di un domani migliore dell'oggi. Facile scadere nella retorica, ma questo pensiero coinvolge anche chi, a conti fatti, non se la passa male.

Il rischio della sottrazione delle certezze maturate e duramente conquistate aleggia sulla testa di tutti, nessuno escluso; è tragico anche solo pensarlo, ma forse una speranza è che il fondo arrivi ad essere toccato così in fretta che la risalita inizi presto, che il muro di bugie e di convenienze cada lasciando spazio ad una nuova stagione di riequilibrio per ridare la speranza a tutti quelli che l'hanno persa.

giovedì 6 giugno 2013

A chi conviene la Lettonia?

La Lettonia, piccolo paese con poco più di due milioni di abitanti, si prepara a quanto pare a diventare il 18° paese dell’Unione Europea ad adottare l’euro dal 1° gennaio 2014, rimpiazzando così il Lats lettone.
Con un Pil di circa 30 miliardi di euro la Lettonia presenta alcune analogie con altri paesi della zona euro, soprattutto con Cipro.

I depositi bancari di non residenti ammontano a circa sette miliardi di euro, approssimativamente un quarto del suo Pil; certo, nulla a che vedere con il 150% sul prodotto interno rappresentato dai depositi ciprioti, ma la possibilità che anche la Lettonia sia meta dei magnati principalmente russi è concreta. Il paese fonda la sua economia principalmente sull’industria meccanica e non sui servizi come Cipro, rappresenta un importante centro commerciale dei paesi baltici e di sbocco per alcuni mercati europei come ad esempio il nostro, quello italiano, che nel 2012 ha esportato per 426 milioni di euro.

I dubbi su quest’ingresso nascono essenzialmente dalla netta presa di posizione della popolazione contro l’ingresso nella moneta unica, a Riga un partito contrario all’adesione ha raccolto il 58% dei voti. Le premesse, dunque, non sono delle migliori tenendo conto anche del fatto che la Commissione Europea ha subito pressato il governo lettone affinché si mantenga inflessibile nei confronti della propria politica contenitiva per mantenere l’inflazione sui livelli attuali (1,3% nei primi quattro mesi del 2013) e conservare il proprio rapporto disavanzo pubblico/Pil vicino ai valori attuali (il Governo di Rigalo è stato in grado di portarlo dall’8,1% del 2010 al 1,2%).

La Lettonia in sostanza ha i cosiddetti “parametri” a posto, al momento, riuscendo a riportarsi in linea con i parametri UE, e mantiene un discreto valore in merito ai tassi d’interesse (con una media del 3,8%); inoltre il suo debito pubblico è, insieme con quello italiano, l’unico con un alto indice di sostenibilità nel lungo periodo.

Ma allora perché entrare nell’euro?

Gli indicatori del paese sono in costante crescita, ad esempio il Pil lettone ha avuto questo tipo di tendenza:


con un lieve e fisiologico calo nel 2009-2010 per via della crisi ma poi in risalita e con prospettive di crescita; anche il Pil pro-capite è in ascesa:


e’ cresciuto di poco nel periodo di fragore della crisi mondiale ma è pur sempre cresciuto; allora dobbiamo cercare altrove. La svalutazione del Lat Lettone negli ultimi tre anni ha seguito l'evoluzione della crisi ed ha potuto fluttuare aggiustando gli scompensi, ma nonostante questo si sono poste le basi per l’ennesima dinamica “centro-periferia” tanto cara alla Germania, infatti la bilancia commerciale lettone è in costante deficit:


mentre gli investimenti stranieri in costante aumento:


tutto questo potrebbe portare il paese ad essere protagonista dell’ennesima dimostrazione di come la politica rivolta prevalentemente all’export della Germania (e dei suoi satelliti) causi danni ad economie troppo deboli che risentono di un massiccio afflusso di capitali e di investimenti diretti rivolti primariamente al M&A (Merger and Acquisition) che noi comprendiamo piuttosto bene.

Allora per chi possono essere i vantaggi dell’ingresso della Lettonia nell’euro?
Per la sua economia o per quella della Germania?
Il tempo ci dirà ed entro il 2014, se l’euro resisterà, avremo tutte le sentenze.

martedì 4 giugno 2013

Le previsioni di Draghi sono rivolte ai mercati

Le parole di Mario Draghi da Shangai sono un ottimo tranquillante per mercati a rischio fermento (vedi il calo della Cina e le difficoltà della borsa giapponese) ma da un punto di vista logico sono completamente prive di senso.
La ripresa da lui indicata a partire dalla seconda metà del 2013 sarà favorita dalla politica della BCE (basso costo del denaro con un altro taglio dei tassi d’interesse) e dalle esportazioni; fino ad oggi la prima iniziativa è risultata di debole efficacia in quanto il passaggio dal basso tasso all’allentamento delle restrizioni creditizie da parte degli istituti è stato debole e in alcuni casi inesistente, a causa delle sofferenze che anche in Italia cominciano ad essere un’ incognita.
La politica dell’export, invece, è sufficiente sotto l’aspetto del numero ma molto meno opportuna dal punto di vista pratico, perché agevola unicamente le economie forti che si basano su questo sistema, riducendo ancora di più la domanda interna che viene così ulteriormente soffocata (mantra della Germania).
Caso rilevante è la Francia, dove la bilancia dei pagamenti si è spostata nel giro di dieci anni da un discreto attivo a un deficit sopra il 2% del Pil; perché? Perché la Francia sta diventando la nuova frontiera tedesca, dopo aver inondato di credito e prodotti i paesi dell’Europa meridionale, aggravandone la crisi (vedi Spagna, Portogallo, Grecia), ora l’economia e l’industria tedesca si stanno spostando verso la propria frontiera; a supporto di queste affermazioni ecco il grafico che mostra l’andamento della bilancia dei pagamenti dal 2007 al 2013 (stimato):


Tutto questo sbilanciamento, come già accaduto nei “PIIGS”, racchiude un aumento del debito privato che è il vero motore della crisi economica; ne è riprova il fatto che il debito pubblico è molto aumentato negli ultimi due anni e il rapporto debito/Pil non è tanto lontano da quello italiano.

I francesi ora sperimentano la concezione tedesca di “euro” e “cooperazione” fra i vari paesi come i trattati (Lisbona) richiedono e che la Germania non ha mai voluto applicare, per ovvi motivi.
Ma il padrone dell’Europa non sta così bene, con il Pil inferiore dello 0,3% su base annua nel primo trimestre 2013 dopo aver registrato una flessione dello 0,7% nell’ultimo trimestre 2012 (sempre su base annua). Anche i paesi periferici, come Finlandia e Olanda, registrano andamenti in ribasso; a tutto questo si sommano i problemi cronici e ben noti come quello di casa nostra, di Spagna, Portogallo e Slovenia oltre che l’aggravarsi della situazione greca, con emissari della Troika in arrivo ad Atene per verificare il taglio dei dipendenti pubblici richiesto dalle organizzazioni che hanno ben vigilato sul compiersi di questa catastrofe.

A fronte di tutto questo, dove trova Draghi la fiducia per parlare di ripresa dalla seconda metà di quest’anno? Quali sono i parametri che lo portano a tale previsione? Sembra quasi commensurabile all’ottimismo (a tratti entusiasmo o “euriasmo” senza senso) dei nostri politici all’uscita dell’Italia dalla procedura per deficit eccessivo che sbloccherebbe (a loro dire) molti denari per le decine di riforme promesse e per tappare i buchi creati dalle tasse rimosse per ragioni elettorali (quali e quanti soldi non è dato sapere, soprattutto dopo aver inserito il pareggio di bilancio in Costituzione).

Il quotidiano “Libero” oggi in edicola apre in prima pagina con l’introduzione ad un’inchiesta sull’abbandono dell’euro e i possibili scenari, dimostrando che anche il “mainstream” di fronte alla crescente protesta, piano piano comincia a indietreggiare.